STUDIO DELLA BIBBIA, VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO E PATRISTICA

giovedì 30 aprile 2009

L'INFERNO DALLE SACRE SCRITURE


L'INFERNO DESCRITTO DA GESÙ



Gesù, nei suoi messaggi, ha parlato più della realtà dell'inferno, che della realtà del Cielo.

Di seguito sono riportati alcuni versetti dove Gesù descrive l'inferno, che in questi casi si riferisce allo "Stagno di fuoco e di zolfo" come in Apocalisse 20:14-15.



Matteo 5:22

Ma io vi dico: Chiunque si adira contro suo fratello senza motivo, sarà sottoposto al giudizio; e chi avrà detto al proprio fratello "stupido", sarà giudicato dal tribunale; e chi gli avrà detto "pazzo", sarà condannato al fuoco dell'inferno.

Matteo 11:23

Gesù quando rimprovero Capernaum gli disse: "E tu, o Capernaum, sarai tu forse innalzata fino al cielo? No, tu scenderai fino nell'Ades"

Matteo 13:40

Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo.

Matteo 13:42

E li getteranno nella fornace ardente. Lì sarà il pianto e lo stridor di denti.

Matteo 18:8

Ora, se la tua mano, o il tuo piede, ti è occasione di peccato, mozzali e gettali via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani e due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno.

Matteo 22:13

Allora il re disse ai servi:"Legatelo mani e piedi, prendetelo e gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor di denti.

Matteo 23:33

Serpenti, razza di vipere! Come sfuggirete alla condanna dell'inferno?

Matteo 25:41

Allora Egli dirà ancora a coloro che saranno a sinistra:"Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli.

Matteo 25:46

E questi andranno nelle pene eterne, ed i giusti nella vita eterna.

Marco 3:29

Ma chiunque bestemmierà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, ma sarà destinato alla dannazione eterna.

Marco 9:43

Se la tua mano ti è occasione di peccato tagliala! E' meglio per te entrare monco nella vita, che avere due mani ed andare all'inferno, nel fuoco inestinguibile.

Marco 9:48

Dove il loro verme non muore ed il fuoco non si spegne.

Giovanni 5:29

Quelli che hanno fatto il bene risusciteranno alla vita; e quelli che hanno fatto il male risusciteranno a condanna.



ALCUNI PASSI DELL'ANTICO TESTAMENTO



Alcuni passi delle Sacre Scritture che confermano l'esistenza del soggiorno dei morti e che esso si trova sotto terra ad una grande profondità e che la vi scendono gli empi quando muoiono.



"Gli empi se n'andranno al soggiorno dei morti, si, tutte le nazioni che dimenticano Iddio" (Salmo 9:17), ed a proposito della sorte di quelli che confidano nei loro grandi averi e si gloriano della grandezza delle loro ricchezze e scritto: "Sono cacciati come pecore nel soggiorno dei morti; la morte e il loro pastore" (Salmo 49:14).



Giobbe, parlando degli empi, disse: "Passano felici i loro giorni poi scendono in un attimo nel soggiorno dei morti" (Giobbe 21:13).



Isaia, parlando della sorte di quelli che in Sion non ponevano mente a quel che faceva il Signore, ma si inebriavano di vino e di bevande alcoliche disse: "Perciò il soggiorno dei morti si è aperto bramoso, ed ha spalancata fuor di modo la gola; e laggiù scende lo splendore di Sion, la sua folla, il suo chiasso, e colui che in mezzo ad essa festeggia" (Isaia 5:14).



Sempre Isaia, nell'oracolo contro il re di Babilonia, disse ad Israele: "Tu pronunzierai questo canto sul re di Babilonia e dirai:.. Il soggiorno dei morti, laggiù si è commosso per te, per venire ad incontrarti alla tua venuta. Il tuo fasto e il suon dei tuoi salteri sono stati fatti scendere nel soggiorno dei morti" (Isaia 14:3,9,11).



Dio per mezzo di Ezechiele predisse ciò che avrebbe fatto a Tiro con queste parole: "Allora ti trarrò giù, con quelli che scendono nella fossa, fra il popolo d'un tempo, ti faro dimorare nelle profondità della terra, nelle solitudini eterne, con quelli che scendono nella fossa..." (Ezechiele 26:20).

http://www.incontraregesu.it/bibbia_inferno.html


BREVE DESCRIZIONE DELL'INFERNO SECONDO LA BIBBIA



Anche se è ragionevole credere che la descrizione dell'inferno fatta da Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, è frutto della sua fantasia, non possiamo però ignorare che Dio stesso, prima tramite i profeti e poi tramite Suo Figlio Gesù e gli apostoli, ci parla dell'esistenza di quel luogo e condizione di tormento, che Lui stesso ha destinato a durare per l'eternità.



Sembra essere scontato che, come membri di chiesa e credenti di fede cristiana, accettiamo, tra l'altro, uno degli insegnamenti basilari di Cristo, che è l'esistenza dell'inferno. Purtroppo molti "credenti" rifiutano di accettare tale realtà come voluta da Dio e proclamata dalla Chiesa. Per qualcuno la questione dell'inferno viene aggirata con l'accettazione di ragionamenti e filosofie che alla fine pongono Dio in una posizione di impotenza (alla fine non è capace di perdonare tutti), o di troppa magnanimità (alla fine Dio perdona tutti) o, nel peggiore dei casi, nella posizione dell'ingannatore (Dio ha parlato sì dell'inferno, però non voleva dire che le persone debbono soffrire, etc., etc.). Quando Dio ha voluto creare tutte le cose che esistono non ha chiesto conto a nessuno, per cui anche se non crediamo e non accettiamo qualcosa che Dio ha fatto, non per questo possiamo dire che non esiste!

COS'É L'INFERNO?

Come punto di partenza dobbiamo fare una distinzione tra il luogo di tormento in cui vanno i peccatori che non hanno voluto ricevere la Grazia, e il luogo, di tormento anch'esso, chiamato "Lo Stagno di Fuoco e di Zolfo", in cui vanno a finire, sempre gli stessi, dopo il Giudizio finale o universale, più Satana con i suoi demoni, la Bestia, il Falso Profeta, e gli angeli ribelli che sono incatenati nell'Abisso.

Spesse volte, sia il primo che il secondo luogo, vengono chiamati con lo stesso nome di INFERNO. La differenza è nel fattore tempo. Nel primo luogo vi vanno tutti i peccatori che sono morti e muoiono prima del Giudizio finale, il secondo luogo è definitivo e sarà attivo dopo la vittoria di Cristo sulla Bestia e sul Falso Profeta.

Riguardo la condizione di tutti e due i luoghi non vi è differenza: sono luoghi di tormento, di dolori, di sofferenze e di pianto.

Questa realtà ci fa comprendere un aspetto importantissimo nell'economia del Regno di Dio, cioè che la destinazione nell'aldilà si decide solo in questa terra, per cui tutte le credenze che incoraggiano le pratiche di intercessioni per i morti con i rituali annessi sono speculazioni arbitrarie e falsi insegnamenti atti a deviare le persone dal sano culto, essendo usati specialmente per incrementare l'entrata finanziaria.

Dio lascia al singolo individuo la facoltà di stabilire la propria sorte eterna, e questa sulla terra, per cui alla morte ognuno sarà portato nel luogo prestabilito: quelli a perdizione eterna nell'inferno o Ades, senza vedere Dio; quelli salvati, nel cielo alla presenza di Dio. Nel Giudizio Universale anche quelli che sono nell'inferno compariranno davanti a Dio, il quale confermerà loro l'eterna condanna.



Il luogo o condizione INFERNO racchiude diversi concetti biblici che, seppur descritti con termini diversi nelle lingue ebraica e greca, hanno in comune un predominante concetto, che è quello dell'esistenza di una realtà, dopo la cessazione dell'esistenza dell'uomo sulla terra, di condizione eterna, lontana da Dio e nella sofferenza. D'altronde, la creazione di Dio, il Suo impegno per la realizzazione della salvezza dell'umanità, con la necessità della nascita, della morte e risurrezione di Cristo, sarebbero state inopportune in una realtà dove non ci sarebbe una punizione eterna e dove alla fine tutto sarebbe tornato nel nulla assoluto o nella eterna scomparsa dell'uomo malvagio e peccatore, tutte cose, queste, che ci portano alla deviazione totale dall'insegnamento di Cristo e completamente fuori dal cristianesimo.

Anche se la dottrina dell'inferno non è la dottrina centrale del cristianesimo, possiamo tranquillamente dire che è, insieme alle altre, un insegnamento importantissimo, per cui negando la sua esistenza saremo costretti a rifiutare le altre che sono ad essa collegate. Tutte le dottrine e gli insegnamenti fondamentali di Cristo sono vitali per il credente, sono come i raggi di una ruota, per cui venendone a mancare uno, viene compromessa la funzionalità della ruota stessa.



I termini che riscontriamo nelle lingue bibliche sono:

Abyssos (greco) cioè "abisso", "inferi", in particolare "prigione dei demoni e degli angeli ribelli in punizione" dei passi di Luca 8:31 e Apocalisse 9:1; un significato simile è attribuito a "tartaros" di 2° Pietro 2:4;

Sceol (ebreo) ovvero Ades (greco), comunemente chiamato "inferno" e "soggiorno dei morti", ed è il luogo provvisorio ed intermedio di soggiorno dell'anima della persona deceduta sino alla resurrezione finale. Lì Gesù è andato a predicare il Vangelo agli spiriti dei morti (1° Pietro 3:19, 4:6), ed è pure da lì che, quando se n'è salito in alto, nel cielo, ha liberato molti che erano prigionieri, portandoli con se (Efesini 4:8). Quindi Sceol o Ades, adesso, dopo la resurrezione di Gesù, è la condizione e il luogo dove vanno le anime di coloro che saranno giudicate e condannate da Dio ed è tutt'ora un luogo in cui si soffre. (Leggi le testimonianze);

Geenna (greco) è l'inferno finale di fuoco e zolfo, o "stagno ardente di fuoco e zolfo" di Apocalisse 20:10 e 20:15. E' il termine tradotto in greco dall'Aramaico di "gehinnam", cioè valle di Hinnom, luogo a sud di Gerusalemme, dove al tempo del dominio cananeo venivano eseguiti sacrifici di bambini tramite roghi e che valeva come luogo di giudizio divino. Quando Gesù parla di questo luogo non si riferisce al luogo geografico, ma a quello che esso rappresenta, cioè il luogo della punizione.

Dunque i passi della Bibbia che ci parlano di queste realtà non ci vogliono trasmettere dei concetti puramente simbolici, come vogliono credere quelli che rifiutano il sano insegnamento di Cristo per abbracciare le tesi dell'annichilimento e del condizionalismo, ma ci descrivono, seppur aiutati da figure immaginarie, delle realtà presenti e future.

La Geenna, o lo Stagno di Fuoco e di Zolfo sono veramente dei luoghi in cui si soffre. Gli elementi del fuoco e dello zolfo possono essere immaginari, ma quello che la Parola di Dio ci vuole trasmettere sono gli effetti che questi elementi hanno sulla persona e sono effetti che causano dolore e sofferenze. Infatti, dice ancora la Gesù: "...lì sarà il pianto e lo stridor di denti".



Inoltre bisogna distinguere tra la cessazione della vita fisica e la morte eterna.

Noi uomini creati ad immagine e somiglianza di Dio siamo spirito, abbiamo un'anima ed un corpo. Come dice l'Apostolo Paolo: "...abitiamo in questa tenda (corpo)". Quando, per un qualsiasi motivo di infermità o di incidente, il nostro corpo non è più in grado di funzionare, diciamo che "si muore", alla nostra anima viene a mancare quella condizione che le permette l'esistenza sulla terra, o meglio ancora, sulla superficie della terra. Questa è la morte fisica, la cessazione della vita del corpo.

La morte eterna, invece, è la condizione di mancanza di vita divina per l'eternità. E' chiamata anche "la morte seconda" in Apocalisse 20:14 ed è raffigurata come uno stagno dove bruciano continuamente elementi infiammabili.

Così quando leggiamo nella Bibbia che l'uomo che muore viene posto nella tomba e li non si ricorderà più niente, vuol dire che il corpo, creato o trasformato da Dio dalla terra, ritorna alla terra da dove è stato tratto, ma l'anima scende nel soggiorno dei morti (Sceol-Ades-Inferno).

In ebraico il termine "tomba" è "queber", in greco "taphos" e "mnemeion". Sono tutti termini differenti da quelli sopra descritti e rappresentano e descrivono condizioni e luoghi diversi.



Anche se vogliamo partire dal presupposto che termini come: stagno ardente, fornace ardente, pena di fuoco eterno, fuoco inestinguibile, verme che non muore e tormento, trattano di una descrizione simbolica, in tutto o in parte, sono comunque riconoscibili delle realtà spaventose: lontananza da Dio, tenebre, sofferenze e tormenti.

L'indicazione perentoria di tali dolori nello Sceol o nella Geenna, non si possono paragonare a un'estinzione o annientamento dell'esistenza. Se l'uomo fosse veramente annientato all'atto della morte terrena sarebbero superflui e incomprensibili i riferimenti al "fuoco eterno" o "inestinguibile", al "verme che non muore" e alle relative sofferenze.

Da nessuna parte della Sacra Scrittura si trova una chiara prova del fatto che questo "fuoco" rappresenta un atto unico di annientamento che dà termine all'esistenza dell'individuo, mentre invece si denota la sua eterna durata.

Per descrivere la realtà della punizione, della sofferenza e della lontananza eterna da Dio, la Bibbia utilizza costantemente concetti che richiamano orrore, dolore e sofferenze. Per esempio, la Geenna non rappresenta qualcosa di irreale, temporaneo e vuoto, ne qualcosa che annienta definitivamente, ne un luogo di condizione intercorrente fra le varie reincarnazioni, ne un luogo di purificazione come il Purgatorio.



Alla fine anche "la morte" e "il soggiorno dei morti" saranno gettati nello Stagno di Fuoco (Apocalisse 20:14). Questo ci descrive: 1) il passaggio dei morti, da una condizione temporanea di sofferenze ad una condizione finale di eterna perdizione; 2) la fine della funzione dello Sceol da "anticamera dell'inferno", così, seppur ve ne fossero rimasti alcuni, anch'essi si troverebbero nella eterna e finale destinazione, dentro lo Stagno di Fuoco.

CONCLUSIONE

Accettare l'insegnamento dell'INFERNO e descriverlo, non significa gioire ed essere felici per le molte anime che vanno in quel luogo di tormento. Nella Bibbia sta scritto che Dio non si compiace nel peccatore che perisce, ma desidera che ogni persona giunga alla conoscenza della verità per poter scegliere per la sua salvezza. Purtroppo, ed a malincuore, dobbiamo costatare che, o per ignoranza, o per negligenza, o per libera scelta, molte persone vivono la propria vita vicino alla religione ma lontano da Dio. Anche noi come figli di Dio ci associamo al sentimento di Dio, e il solo scopo di questa modesta iniziativa è quello di servire come monito ed avvertimento per coloro che consapevoli o inconsapevoli sono sulla strada che li porta all'inferno. (Leggi il Piano di Dio per l'uomo).



Gesù ha detto: " ...due sono le vie: una stretta ed angustia che porta alla vita, e pochi sono quelli che la prendono; l'altra larga e spaziosa che porta alla perdizione, e molti sono quelli che vi si incamminano". (Matteo 7:13-14).

La strada che conduce all'inferno è prima di tutto una strada (trascorrere la vita) senza la Salvezza e senza Dio; è la strada del peccato e delle concupiscenze; della realizzazione dei propri desideri ad ogni costo, anche recando del male al prossimo.

Strada significa "trascorrere la vita", "seguire una tale decisione", "fare una tale scelta". E' una decisione che prendiamo noi, conseguentemente alla libertà che Dio ci ha dato. La strada della politica corrotta, della religione formale, della scienza senza Dio, delle filosofie e delle dottrine ingannatrici e dell'egoismo, è la strada che tira dritto per l'inferno.

Il rimedio per evitare ciò è cambiare strada, decidere di fare la volontà di Dio e arrendersi all'amore di Cristo, colui che può perdonare tutti i nostri peccati ed assicurarci una vita eterna vicino a Dio e fuori dall'inferno.

(Come ricevere la Salvezza).

http://www.incontraregesu.it/l'inferno%20esiste.html


E' Dio così crudele da desiderare che le anime soffrono per l'eternità nell'inferno?



Il fatto che Dio condannerà delle anime a soffrire nell'inferno è una dimostrazione della giustizia di Dio, che va di pari passo con l'amore di Dio. Giustizia ed amore sono raffigurate come le due braccia di Dio. Infatti se non ci sarà condanna non ci può essere salvezza; che bisogno ha l'uomo di salvezza se non ci sarà una condanna da cui scampare? Se non vi era bisogno della salvezza, perché allora è venuto nel mondo, sofferto e morto sulla croce il Figlio di Dio?

La resurrezione stessa di Gesù testimonia la giustizia di Dio, il quale ha costituito come giudice proprio suo Figlio. Solo lui è in grado di giudicare rettamente perché oltre ad essere Figlio di Dio è anche il Salvatore degli uomini. Dio ha gia manifestato la sua bontà ed il suo amore verso tutti gli uomini, perché ha programmato e permesso la morte del suo unico Figlio, per dare la possibilità a tutti gli uomini di ricevere la salvezza.

Venendo meno la giustizia, viene meno anche l'amore. Due attributi fondamentali della personalità di Dio: Dio è Amore; Dio è Giusto. La condanna degli empi, oltre a dimostrare la giustizia di Dio, conferma e rafforza l'amore di Dio. La Giustizia di Dio si manifesterà con la stessa intensità con cui si è manifestato l'amore che Dio ha ed ha avuto per l'uomo, che ha permesso la morte di suo Figlio. Alla fine l'amore di Dio si concretizzerà col la giusta ricompensa per coloro che lo hanno amato ed hanno posto in Lui la loro fiducia con obbedienza.



http://www.incontraregesu.it/risposte/inferno.htm


L'inferno.

La vita non finisce con la morte, perché l'uomo ha all'interno del suo corpo un'anima immortale che sopravvive alla morte fisica. Dell'esistenza di questa anima immortale ne parlò pure Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ai suoi discepoli quando disse loro di non temere "coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima" (Matteo 10:28). Da notare che Gesù ha detto che il corpo può essere ucciso, mentre l'anima no; per cui è ovvio che essa continua a vivere dopo la morte. Ci sono due posti in cui le anime degli uomini, dopo la morte, possono andare. Uno è un posto di riposo, di refrigerio, di benedizione, etc., in cui vanno coloro che sulla terra hanno amato Dio e fatto la volontà di Dio. L'altro luogo è un posto in cui va il peccatore e colui che ha rifiutato la grazia e l'amore di Dio. Quest'ultimo è un luogo in cui si soffre ed in cui ci sarà il Diavolo coi suoi angeli. Questo luogo nella Bibbia e' chiamato in ebraico Sheol, e in greco Ades, e da alcuni è stato tradotto con "soggiorno dei morti" e da altri con "inferno" (dal latino infernus che significa: luogo che è di sotto, inferiore).

Nel passo di Luca 16:19-31 (il ricco e Lazzaro), il nostro Signore Gesù Cristo racconta una storia realmente avvenuta. Quella storia ci insegna che con la morte non finisce tutto, ma che esiste una vita ultraterrena e che l'anima del peccatore continua a vivere in un mondo invisibile a noi, dopo la sua morte. Questa è la realtà di molte persone che vivono nel peccato e lontani da Dio: vivono sulla terra, godono dei piaceri della vita e si dilettano nel fare il male, ma quando giunge la morte, la loro anima si diparte dal loro corpo e va nell'Ades dove sarà tormentata dal fuoco di quel luogo. Il racconto ci dice che quel ricco godeva splendidamente ogni giorno mentre era sulla terra; però quando è morto, e fu seppellito, si ritrovò in un luogo di tormento, appunto l'Ades. In quel luogo poteva ancora parlare, ricordare, e secondo quello che egli disse ad Abramo, avrebbe potuto essere pure rinfrescato con dell'acqua.

L'Ades, o Inferno, si trova negli antri della terra ad una grande profondità; è in questa creazione, ma vi si entra con la dimensione della realtà invisibile, chiamata anche spirituale. In rare occasioni e avvenuto che direttamente delle persone vi sono entrate con i loro corpi; un esempio è l'episodio avvenuto nel deserto, quando gli Israeliti, dall'Egitto stavano andando nella Terra Promessa (Numeri 16:33 ). E' un luogo reale dove l'anima del peccatore, dopo essere uscita dal suo corpo, va a stare in attesa del giudizio. Noi non possiamo vedere la nostra anima, ma sappiamo che essa dimora in questo nostro corpo di carne ed ossa, e come non possiamo negare l'esistenza dell'anima solamente perché la vediamo, non possiamo neanche negare l'esistenza dell'Ades che non vediamo.

Questo viene prima il Giudizio Universale, ma il luogo dove saranno gettati Satana, i suoi angeli e tutti gli uomini che saranno condannati, cioè nello Stagno di Fuoco e di Zolfo, sarà una condizione in cui le sofferenze saranno maggiori.





Allora ti trarrò giù, con quelli che scendono nella fossa, fra il popolo d'un tempo, ti farò dimorare nelle profondità della terra, nelle solitudini eterne, con quelli che scendono nella fossa... (Ezecchiele 26:20).

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mercoledì 29 aprile 2009

Quello che la Bibbia non ha mai raccontato

Quello che la Bibbia non ha mai raccontato
Una grande mostra d'arte dedicata ai libri apocrifi. Cioè alle storie e ai personaggi di cui le Scritture canoniche non parlano. Non per invalidare i Vangeli e la Chiesa, ma per renderli più vicini a noi

di Sandro Magister
ROMA, 28 aprile 2009 – Un anno fa misero in mostra la Genesi. L'anno prima l'Apocalisse. Ed entrambe le volte richiamarono a Illegio, piccolo borgo di montagna sulle Alpi della Carnia, un gran numero di visitatori, incantati dai capolavori d'arte lì raccolti da importanti musei d'Italia e del mondo. Fu tale il successo che la mostra sull'Apocalisse fu addirittura replicata a Roma, nei Musei Vaticani.

Quest'anno, dal 24 aprile al 4 ottobre, a Illegio sono in mostra gli Apocrifi. Cioè le memorie e le leggende non scritte nei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento ma entrate nella tradizione cristiana, riprese dall'arte e raffigurate anche in tante chiese.

A cominciare dal bue e dall'asinello accanto al neonato Gesù, sono numerosi gli episodi e i personaggi della storia sacra tramandati al di fuori dei testi canonici della Bibbia. Ad esempio la nascita e l'infanzia di Maria con i suoi genitori Anna e Gioacchino, il suo sposalizio con Giuseppe, i nomi e le vicende dei Magi, i particolari della fuga in Egitto, la "dormizione" della Madonna e la sua assunzione al cielo.

Sono ottanta le opere raccolte ad Illegio con soggetto gli Apocrifi e con autori di prima grandezza, come Bruegel e Guercino, Dürer e Caravaggio. Di quest'ultimo, nelle prime settimane della mostra, è esposto lo splendido "Riposo nella fuga in Egitto" conservato nella Galleria Doria Pamphili di Roma. Con Maria e il Bambino dormienti e un angelo che accompagna al violino un mottetto con parole del Cantico dei Cantici. Giuseppe regge lo spartito musicale e l'asino guarda ed ascolta, estasiato.

Sulla copertina del catalogo della mostra edito da Skira c'è un dipinto del Guercino del 1628 (vedi sopra) con l'incontro tra Gesù risorto e la madre: anche questo non raccontato dai Vangeli.

La scelta di dedicare la mostra agli Apocrifi non è priva di addentellati con l'uso odierno di alcuni testi extrascritturali. Dal "Codice da Vinci" alla vicenda di Giuda è oggi tutto un pullulare di libri e di film sostanzialmente mirati a invalidare i Vangeli: libri e film che si presentano come portatori di una "verità nascosta", occultata dagli stessi Vangeli e dalla Chiesa.

Questo della "verità nascosta" è un carattere che già apparteneva ai testi apocrifi di impronta gnostica dei primi secoli. Non sorprende che oggi ritrovi successo, con il moderno gnosticismo anticristiano.

Le opere d'arte esposte ad Illegio mostrano invece che larga parte degli Apocrifi hanno avuto e possono continuare ad avere tutt'altra funzione: non di contrastare e invalidare i Vangeli canonici, ma di dilatarne il racconto, di arricchirne la comprensione, di nutrire la devozione, in sostanziale continuità con la trama fondante delle Sacre Scritture.

E questa è una ragione in più per esplorare il vasto insieme degli scritti extracanonici. È ciò che fa qui di seguito in modo avvincente l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, studioso di fama mondiale della Bibbia e della letteratura ad essa connessa, presidente del pontificio consiglio della cultura.

Ravasi è tra quelli che hanno presentato ufficialmente al pubblico la mostra di Illegio sugli Apocrifi, lo scorso 23 aprile, a Roma, nel palazzo dell'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede. Il suo intervento è uscito anche su "L'Osservatore Romano" del 24 aprile 2009, col titolo: "Il canto del gallo arrostito e la conversione di Ponzio Pilato".

Ravasi si sofferma soprattutto sugli ampliamenti che gli Apocrifi hanno fatto dei racconti della Passione. La conversione di Ponzio Pilato è uno di questi sviluppi: entrato a tal punto nella tradizione, che la Chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano che condannò a morte Gesù.

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La Pasqua secondo gli apocrifi. Giuda, Pilato, Maria

di Gianfranco Ravasi


È paradossale, ma non è impresa difficile quella di ordinare una mostra che abbia come filo conduttore i vangeli apocrifi, come appunto è testimoniato dalla grandiosa esposizione che si è aperta il 24 aprile a Illegio in Friuli, cittadina divenuta nota per i suoi straordinari eventi artistici.

Questa letteratura ebbe, infatti, uno straordinario successo proprio nell'arte e nella tradizione popolare. Sotto il termine di "apocrifi" – letteralmente, dal greco, i libri "nascosti" – si stende, infatti, un'immensa produzione letteraria e religiosa, anche di bassa qualità, che corre parallela ma autonoma rispetto all'Antico e al Nuovo Testamento i quali contengono invece i libri "canonici", ossia quelli riconosciuti dall'ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio. Questi documenti si distribuiscono anche nell'ultima fase dell'ebraismo anticotestamentario e costituiscono un capitolo della stessa letteratura religiosa giudaica.

Gli apocrifi giudaici sono almeno 65 testi diversi, composti a partire dal III secolo prima dell'era cristiana fino al II secolo, riconducibili ad ambiti e generi diversi. Importanti, ad esempio, sono certi scritti apocalittici come i tre diversi libri di Enoch che offrono una testimonianza variegata ma decisiva di molte concezioni del giudaismo. Significativi sono anche i "testamenti" messi in bocca a vari personaggi biblici come i vari patriarchi, oppure Giobbe, Mosè o Salomone. C'è, poi, una serie di opere di taglio filosofico o sapienziale, come l'antico racconto di Achikar, di origine babilonese, adottato e trasformato dal mondo giudaico e divenuto molto popolare. Non mancano, inoltre, preghiere, odi, salmi, alcuni venuti alla luce a Qumran, sulla costa del mar Morto, in una delle più celebri scoperte del secolo scorso. Sono da registrare anche aggiunte o approfondimenti liberi di testi biblici come la "Vita di Adamo ed Eva" o la storia d'amore tra Giuseppe e Asenet.

La mostra di Illegio, però, mette in scena rappresentazioni artistiche legate agli apocrifi cristiani che puntano a ricreare, spesso molto liberamente, la vita di Gesù dando origine a nuovi Vangeli – non mancano però Apocalissi o Atti di vari apostoli e lettere sul modello di quelle paoline. Si tratta di una massa rilevante di scritti cristiani, nati soprattutto dalla pietà popolare ma anche da ambiti colti: pensiamo agli scritti gnostici egiziani. Essi furono ben presto contestati, nonostante rivendicassero il desiderio di allinearsi e di completare i libri canonici. Questa esclusione, per altro spesso motivata a causa della loro qualità teologica discutibile e della loro fantasiosa creatività storica, non ne impedì l'ingresso nella devozione popolare, nella stessa storia della teologia, nella liturgia e soprattutto nella tradizione artistica dei secoli successivi.

Entriamo, dunque, anche noi come viandanti stupiti in questa selva di pagine, di immagini, di colpi di scena, di simboli, di fantasie. Qui appaiono, ad esempio, le "divine malefatte" di un Gesù ragazzo che fa morire e risorgere o mutare in capretti i compagni di giuoco, che paralizza il maestro che sta per picchiarlo a causa della sua sapienza troppo saccente, ma che sa guarire dai morsi di vipera e estrae prodigiosamente bimbi caduti in forni o pozzi, che aggiusta senza fatica manuale un letto sghembo uscito dalla falegnameria di Giuseppe.

Tra le decine di percorsi che si aprono davanti a noi in tale foresta letteraria ne scegliamo uno che ci conduca all'evento della Pasqua di Cristo, il periodo liturgico che ci sta accompagnando. Un'enorme massa di racconti segue, infatti, le ore della settimana che verrà poi chiamata "santa". Inseguiremo solo alcuni attori di quei giorni oscuri e gloriosi, prescindendo quindi dai vari soggetti esposti nella mostra friulana.

***

Il primo a venirci incontro è Giuda Iscariota, il traditore, un personaggio che ha continuato a generare nuovi "apocrifi" fino ai nostri giorni con vari romanzi e opere di autori diversi moderni. Per gli apocrifi antichi la storia del traditore di Gesù ha radici remote e molto fantasiose.

Figlio del sacerdote Caifa, fin da piccolo Giuda – secondo il "Vangelo arabo dell'infanzia del Salvatore", un apocrifo carissimo ai cristiani d'Oriente e persino ai musulmani – dava segni di possessione diabolica. Sua moglie, stando invece a un testo copto egiziano, aveva accolto presso di sé per allattarlo il figlio neonato di Giuseppe d'Arimatea, colui che avrebbe offerto la tomba di famiglia per deporvi il cadavere di Gesù. Ebbene, quando Giuda tornò a casa stringendo in mano i trenta denari del tradimento, quel neonato non volle più succhiare il latte. Venne, allora, convocato suo padre Giuseppe: appena il piccolo lo vide, prodigiosamente si mise a gridare: "Vieni, padre mio, portami via dalle mani di questa donna che è una bestia selvatica. Ieri, nell'ora nona, hanno preso il prezzo del sangue del Giusto". Infatti sempre secondo i testi apocrifi, era stata la moglie a spingere Giuda al tradimento per venalità: costringeva già da tempo il marito a rubare alla cassa comune dei discepoli che, come si legge nel Vangelo canonico di Giovanni (12, 6), era appunto gestita da Giuda.

Ma la scena più clamorosa è narrata dalle Memorie o Vangelo di Nicodemo, un famoso apocrifo greco, giunto a noi anche in versione copta e latina, forse dell'inizio del II secolo. Giuda, dopo aver tradito Gesù, si ritira a casa sua, cupo e deciso al suicidio. Sua moglie cerca di convincerlo a non impiccarsi, certa che Cristo non potrà mai risorgere. La donna sta arrostendo un gallo per il pranzo e scommette con il marito: "Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù potrà risorgere. Ma, proprio mentre stava parlando, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte. Giuda, allora, del tutto convinto, con la corda fece un capestro e andò a impiccarsi".

È evidente la ripresa in forma surreale ed esasperata del tema evangelico del gallo che canta al momento del tradimento di Pietro. Altri apocrifi dipingeranno la morte di Giuda, invece, come un'esplosione dopo che il suo corpo si era gonfiato a dismisura – c'è un libero riferimento ad Atti degli Apostoli 1, 18 – e rappresenteranno la sua anima mentre vaga disperata nell'Amenti, cioè negli inferi.

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Non poteva mancare una fioritura apocrifa anche attorno a un altro attore del racconto evangelico delle ultime ore terrene di Gesù: il procuratore romano Ponzio Pilato. Lo scrittore e martire cristiano Giustino nel 155 circa chiamava "Atti di Pilato" quelle Memorie di Nicodemo a cui abbiamo appena accennato. Esse, infatti, contengono una vivace sceneggiatura del processo romano di Cristo, nei confronti del quale vengono avanzati come capi di imputazione la nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto quella del riposo sabbatico. Ma lasciamo la parola all'antico narratore che già esalta la grandezza sovrumana di Cristo. "Pilato chiamò un messo e gli ordinò: Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza! Il messo uscì e, quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse: Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama. [...] Quando Gesù entrò da Pilato, le immagini che i vessilliferi reggevano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù". Sfilano poi davanti a Pilato i testimoni a discarico: ciechi, paralitici, un gobbo, l'emorroissa, tutti guariti da Gesù, e Nicodemo, membro del Sinedrio giudaico.

Qui entra in scena la moglie stessa del procuratore della quale i vari apocrifi offrono anche il nome, Claudia Procula, o Procla: "Sapete che mia moglie – dice Pilato agli accusatori di Gesù – simpatizza con voi riguardo al giudaismo. Gli ebrei risposero: Sì, lo sappiamo! Pilato: Ecco, mia moglie mi ha mandato a dire: Non ci sia nulla tra te e quest'uomo giusto! Questa notte, infatti, ho sofferto molto a causa sua. Gli ebrei, allora, replicarono a Pilato: Non ti abbiamo forse detto che è un mago? È lui che ha inviato a tua moglie i fantasmi dei sogni".

È evidente anche in tal caso come la base narrativa del Vangelo canonico di Matteo (27, 19) venga ampliata con aggiunte di colore. A questo punto Pilato – stando al Vangelo di Pietro che è stato definito "il più antico racconto non canonico della Passione di Cristo" (scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco) – "si alzò; nessuno degli ebrei si lavò le mani, né Erode né alcuno dei suoi giudici". Solo Pilato, dunque, si lava le mani dichiarando simbolicamente la sua innocenza. Poi, sempre secondo le Memorie di Nicodemo, "ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di assumere il titolo di re. Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, tu sia prima flagellato e poi appeso alla croce nel giardino dove sei stato catturato. Disma e Gesta, entrambi malfattori, saranno crocifissi con te". Appaiono così anche i nomi improbabili dei due compagni di crocifissione di Gesù, anonimi secondo Luca 23, 39-43.

È, però, soprattutto sulla vita successiva di Pilato che si scatenerà la fantasia apocrifa, compresa quella moderna: pensiamo al "Procuratore di Giudea" di Anatole France, a "Il punto di vista di Ponzio Pilato" di Paul Claudel, alla "Moglie di Pilato" di Gertrud von Le Fort, al "Ponzio Pilato" di Roger Caillois, al "Pilato" di Friedrich Dürrenmatt, al "Maestro e Margherita" di Michail A. Bulgakov e così via.

Ci è giunta dall'antichità cristiana una relazione apocrifa inviata da Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con i riscontri dei destinatari, una lettera di Pilato a Erode e una "Paradosi" di Pilato, cioè un'ipotetica "tradizione" storica delle sue vicende. C'erano persino apocrifi pagani su di lui, tant'è vero che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea lamentava che l'imperatore Massimino Daia nel 311 avesse fatto distribuire nelle scuole delle false memorie di Pilato "piene di empietà contro Cristo" e avesse ordinato che i ragazzi le imparassero a memoria per istigarli all'odio contro il cristianesimo. Ma gli apocrifi cristiani si accaniranno in particolare sulla morte di Pilato con esiti antitetici.

Da un lato, la citata "Paradosi" descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l'imperatore. "Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò. Pilato si spinse a vedere. Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l'animale, ma essa attraversò l'ingresso della caverna e uccise Pilato".

Più impressionante è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo, secondo cui Pilato morì suicida a Roma con un colpo del suo prezioso pugnale. Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere ripescato perché attirava gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume. Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere recuperato per la stessa ragione e sepolto a Losanna. Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale, in alta montagna.

D'altro lato, la tradizione apocrifa cristiana esalta invece la conversione di Pilato che muore come martire, decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo. Non per nulla la Chiesa etiopica venera come santo nel suo calendario liturgico il procuratore romano.

La stessa sorte toccherà a sua moglie Claudia Procula. Ecco, infatti, un'altra versione della fine di Pilato secondo la "Paradosi" che abbiamo sopra citato. "Il comandante Labio, incaricato dell'esecuzione capitale, troncò la testa di Pilato e un angelo del Signore la raccolse. Sua moglie Procula, vedendo l'angelo giunto a prendere la testa del marito, ebbe un trasporto di gioia ed emise l'ultimo respiro. Fu, così, sepolta con suo marito Pilato per volere e benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo". La conversione del procuratore era avvenuta in coincidenza della risurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del V secolo. Infatti, "entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime. Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio. Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi. [...] Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti! Nell'istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima. Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato".

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Un capitolo particolare in molti Vangeli apocrifi è riservato ai testimoni della risurrezione che si moltiplicano rispetto ai Vangeli canonici e che diventano spettatori di epifanie clamorose. Ecco come lo stesso Pilato narra la sua esperienza secondo il citato Vangelo di Gamaliele: "Vidi Gesù al mio fianco! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli ebrei. Egli mi disse: Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull'albero della croce e sono io il Gesù che è risorto dai morti. Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri, dunque, alla mia tomba: troverai le bende mortuarie che sono rimaste là e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere. Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno". E di fatti Pilato giunto al sepolcro di Cristo – come si è già visto – passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto.

C'è, dunque, un "altro" Cristo risorto che viene incontro negli scritti apocrifi a una folla di persone, rispetto alla ben più sobria e rigorosa narrazione dei Vangeli canonici.

Un'apparizione è riservata, ad esempio, anche all'apostolo Bartolomeo nell'omonimo vangelo apocrifo: in quell'occasione Gesù svela tutti i segreti dell'Ade, ove aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l'alba di Pasqua. In un altro testo è Giuseppe d'Arimatea a incontrare il Signore risorto. Arrestato dai giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede avanzare Gesù con il ladrone pentito nella tenebra della sua cella: "Nella camera risplendette una luce accecante, l'edificio fu sospeso ai quattro angoli verso l'alto, si aprì un passaggio e io uscii. Ci mettemmo in viaggio per la Galilea, mentre attorno a Gesù brillava una luce insopportabile a occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso". Anche Pietro, al di là delle apparizioni pasquali "canoniche", ha un incontro straordinario registrato dagli Atti di Pietro, un apocrifo composto tra il 180 e il 190, sulla via di Roma, e divenuto la sostanza del "Quo Vadis?", il famoso romanzo che il polacco Henryk Sienkiewicz compose tra il 1894 e il 1896.

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Particolarmente vivace è poi la tradizione apocrifa riguardante la madre di Gesù, Maria. I Vangeli canonici tacciono sull'incontro del Risorto con lei. Infatti, dopo la scena del Calvario (Giovanni 19, 25-27) si passa a quella degli Atti degli Apostoli secondo la quale i discepoli di Gesù "sono assidui e concordi nella preghiera" con Maria "al piano superiore della casa [di Gerusalemme] ove abitavano" (1, 13-14) e non si aggiunge nulla sull'incontro tra la Madre e il Risorto. A questo vuoto suppliscono abbondantemente gli apocrifi.

Riprendiamo tra le mani il Vangelo di Gamaliele. Maria, prostrata dal dolore, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce le notizie sulla sepoltura del Figlio. Essa, tuttavia, non si rassegna a restar lontana dalla tomba di Gesù e, tra le lacrime, dice a Giovanni: "Anche se la tomba di mio Figlio fosse gloriosa come l'arca di Noè, io non ne avrei nessun conforto se non la potessi vedere per versarvi le mie lacrime. Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba sono di guardia quattro soldati dell'esercito del governatore! [...] La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro. Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro! Allora esclamò: Questo miracolo è avvenuto a favore di mio Figlio! Si sporse in avanti, ma non vide nel sepolcro il corpo del Figlio. Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era malinconico e triste, si sentì penetrare nella tomba dall'esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell'albero della vita! La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste".

Maria, tuttavia, non riconosce in questa figura gloriosa suo Figlio. Allora inizia un dialogo simile a quello che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) intesse tra Maria Maddalena e il Cristo risorto e alla fine si ha lo scioglimento dell'enigma: "Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo Figlio". E Maria replicherà augurandogli una "felice risurrezione", inginocchiandosi a adorarlo e a baciargli i piedi.

Un'altra testimonianza, ancor più fastosa, dell'apparizione del Risorto a sua madre è conservata in un frammento copto del V-VII secolo, traduzione di un testo più arcaico. "Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, esclamò: Maricha, marima, Tiath. Che significa: Mariam, madre del Figlio di Dio! Mariam ne capiva il senso; perciò si volse e rispose: Rabbuní, Kathiath, Thamioth. Che significa: Figlio di Dio! Il Salvatore le disse: Salve a te, che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo al mondo! Salve, mia brocca piena di acqua santa! Tutto il paradiso gioisce per merito tuo. Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita. Poi il Salvatore aggiunse: Va' dai miei fratelli e di' loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. [...] Maria disse a suo Figlio: Gesù, mio Signore e mio unico Figlio, prima di andare nei cieli dal tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se non vuoi che io ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno. Allora, il Figlio di Dio s'innalzò sul suo carro di cherubini, mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine".

Ormai con questo testo ci ritroviamo in un'altra regione, quella della devozione mariana, cara soprattutto alle Chiese d'Oriente. L'accento scivola sulla mariologia, lasciando sullo sfondo il riferimento cristologico.

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La ricca esemplificazione che abbiamo offerto – sebbene si riferisca a una sola fase della storia di Gesù Cristo – non rende ragione del tutto riguardo alla molteplicità tematica e ai riflessi della varie situazioni ecclesiali che sono rivelati dalle pagine apocrife. Essa, però, riesce a mostrare in modo inequivocabile la qualità radicalmente differente, sia per attendibilità storica sia per rigore teologico, degli scritti canonici neotestamentari, esempio della loro essenzialità tematica e sobrietà narrativa.

Significativa, per contrasto, è l'elaborazione della "gnosi" – secondo la quale la salvezza è offerta solo dalla conoscenza – diffusa soprattutto in Egitto. Essa introdurrà, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso una collezione di frasi o detti di Gesù evangelici ed extra-evangelici, alcuni di grande interesse storico, ma anche aprirà la stura a discutibili speculazioni teologiche, spesso molto elaborate e sofisticate e fin stravaganti.

In positivo potremmo dire che, però, domina un forte senso della grandezza dell'evento cristologico e una viva coscienza dell'identità cristiana. In un apocrifo egiziano gnostico, noto come il Vangelo di Filippo, si legge: "Se dici: Sono ebreo! nessuno si commuove. Se dici: Sono romano! nessuno trema. Se dici: Greco, barbaro, schiavo, libero! Nessuno si agita. Ma se dico: Sono cristiano! Il mondo trema".

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Il sito della mostra. con tutte le informazioni:

> Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli

Promotore della mostra è il Comitato di San Floriano, animato da don Alessio Geretti, viceparroco della pieve e studioso dell'arte cristiana.

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Il servizio dedicato da www.chiesa alla precedente mostra sulla Genesi:

> Miracolo a Illegio, piccolo borgo di montagna (30.5.2008)

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Altri articoli di www.chiesa su temi affini:

> Focus su ARTE E MUSICA

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http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1338201

Se è apocrifo, piace di più

Se è apocrifo, piace di più
Tratto da Avvenire, p.33 12 aprile 2005

Maestri di pubbliche relazioni, polemisti religiosi e agguerrite macchine editoriali hanno presentato il Vangelo di Giuda come una scoperta clamorosa unita alla richiesta, ore rotundo, di "revisionare" i canonici, perché ora sappiamo "che Giuda si è consegnato sua sponte". Contestando la storicità dei canonici, s'investe di credibilità la propaganda di fede degli gnostici cainiti. "Fondamentalismo a rovescio" è già stato chiamato, l'atteggiamento di chi, postdatando i canonici, attribuisce la datazione più alta al Vangelo di Tommaso conferendogli massima autorità. La regia di questi annunci, comunque, presuppone un pubblico pronto ad accettare che singoli "vangeli perduti", per quanto di tarda datazione, contengano rivelazioni d'ampia portata; che possa esistere un testo apocalittico, tanto più potente ed eversivo quanto più occultato; un testo carismatico sebbene privo di un popolo di fedeli. Una minoranza intervistatissima di studiosi - Pagels, Crossan e altri - officiano il culto delle rivelazioni dei nuovi vangeli che sarebbero - dicono - una novità dei nostri anni, poiché sconosciuti prima del 1980 (periodo d'uscita dei Vangeli gnostici della Pagels). Ma la scoperta popolare degli apocrifi non è cosa recente. L'uso polemico dei "nuovi vangeli", più attento ai media che alla sostanza scientifica, è ormai secolare.

A metà Ottocento, alcuni interpretarono il cristianesimo ortodosso come risultato di un processo politico di tipo darwiniano, prodotto di una politica feroce e scaltra, culminata al Concilio di Nicea. L'ipotesi fu accolta con entusiasmo dal mondo anticlericale e da influenti spiritualisti, che bandirono la venerazione degli apocrifi gnostici giudicati la voce degli sconfitti, dei mansueti, dei veri cristiani. Testi che, va aggiunto, gratificavano anche la mentalità elitaria dei "risvegliati" alla gnosi. L'individuazione di nuovi apocrifi accese la speranza di trovare il vangelo definitivo, il più antico e rivoluzionario. Contemporanea alla scoperta del Vangelo di Maria, dalle implicazioni femministe, fu la traduzione inglese della Pistis Sophia (1896) che inaugurò la queste spiritualista di un "vangelo perduto" capace di rimettere in gioco datazioni e autorità dei testi. Nel 1908 George Mead concludeva la traduzione in undici volumi degli apocrifi conosciuti, incontrando un inatteso successo: il materiale fu diffuso da periodici popolari, rotocalchi femminili e collane di libri economici. Come ha scritto Philip Jenkins in Hidden gospels (Oxford, 2001), negli anni '10 e '20 la stampa pubblicò migliaia d'articoli sulla letteratura apocrifa. Sulle principali riviste e quotidiani di Stati Uniti e Inghilterra, ma anche di Francia e Germania comparvero, su base regolare, articoli sul tema. Nelle pagine delle riviste radicali la lussureggiante varietà di questi testi fu piegata alle istanze più diverse: esoteriche e socialiste, vegetariane o femministe, ariane o eugeniste. L'attesa del "vangelo perduto" stimolò anche il fenomeno dei falsi vangeli (spesso "sottratti" al Vaticano) iniziata con l'esseno Vangelo della Pace e con gli atti fasulli della Vita sconosciuta di Gesù (1893). Altri furono canalizzati da medium come il Vangelo acquariano di Gesù Cristo (1908). La colluvie di nuove rivelazioni disorientò molti devoti. Per aiutarli a distinguere fra vangeli falsi, veri e dubbi, il biblista Edgar Goodspeed scrisse l'accorato libro I nuovi strani vangeli (1931). Venne anche la narrativa a colmare la perdurante latitanza del "vangelo definitivo" nelle molte opere d'inizio secolo modellate come equivalente in prosa degli apocrifi. Così il bestseller The brook kerith (1916) di George Moore, che rivelava l'imbroglio della crocefissione; o The miracle of the stigmata (1913) di Frank Harris o L'uomo che era morto (1929) di D. H. Lawrence, il cui Gesù si dedica all'amore con la Maddalena. Nel Gesù re (1946) Robert Graves difende la superiorità del Vangelo degli Ebioniti. In questo genere di letteratura (decliniamo al passato ma il genere è vivace ancor oggi) si poteva leggere che Gesù era indiano, egiziano, ariano, persiano, tibetano; che era femminista o mitraista; sposato con Salomé o Maddalena; che era mago o sciamano; e che le eresie, soprattutto le eresie, conservavano lo spirito del vero Cristianesimo. La parte del cattivo, in questa letteratura (come nella biblistica della Nuova Era), è recitata ovviamente da San Paolo, maligno architetto di complotti. Negli anni delle scoperte di Nag Hammadi e Qumran, annunci esplosivi crearono una rinnovata attesa del "vangelo definitivo" denunciando presunti complotti per occultarlo, trafugarlo o distruggerlo. Ancora mancava il testo incontestabilmente messianico, sebbene i biblisti che si specializzavano su Filippo o Tommaso, proponevano questi come adatti allo scopo. Eversivo, certo, fu il Marco segreto presentato da Morton Smith nel 1958. Eversivo sì, ma chiaramente inventato. Intanto iniziava la pratica del "canone creativo": sostituire, emendare, "integrare" Matteo, Marco, Luca e Giovanni allestendo nuovi canoni come i Complete Gospels di Miller. Quanti siano film e romanzi che raccontano il crollo del Cristianesimo in effige a causa della scoperta di un vangelo perduto è difficile dire. Curiosità, polemica anticristiana, tattica di vendita e incredulità, su queste leve poggia la furba gestione mediatica del Vangelo di Giuda. Che sfrutta anche l'indottrinamento cognitivo prodotto, su tutti noi, dall'onnipresente racconto d'investigazione, dove il detective colleziona prove per smascherare il colpevole, affidarlo ad un giudice e condannarlo. Nel romanzo giallo e in certa biblistica d'assalto, un colpevole c'è sempre, come da copione. E non si tratta di Giuda.

© Mario Arturo Iannaccone





http://www.renneslechateau.it/rennes-le-chateau.php?sezione=studi&id=art_giuda

Se Gesù sapeva che Giuda lo avrebbetradito, perché l’ha tenuto sino alla fine nella cerchia dei più vicini?


Dalla comunita' di Taize'
GIUDA
Se Gesù sapeva che Giuda lo avrebbetradito, perché l’ha tenuto sino alla fine nella cerchia dei più vicini?
Tra i numerosi discepoli che lo seguivano, Gesù ne designò dodici per stare più vicini a lui, per condividere e continuare la sua missione. Non è alla leggera che istituì questo gruppo dei dodici apostoli, ma lo ha fatto dopo aver pregato tutta la notte.

Però, a un dato momento, Gesù si rese conto di un rovesciamento in Giuda, uno dei dodici. Gesù comprese che si staccava interiormente da lui, e anche che lo avrebbe «tradito», come dicono i vangeli. Secondo il vangelo di Giovanni, già in Galilea, molto prima degli avvenimenti di Gerusalemme che dovevano portarlo alla croce, Gesù capì cosa stava succedendo (Giovanni 6,70-71). Perché allora non ha allontanato Giuda dal suo seguito, ma l’ha tenuto accanto a sé sino alla fine?

Una parola che Gesù usa per parlare della creazione del gruppo dei dodici apostoli mette su una pista: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici?» (Giovanni 6,70; vedi anche Giovanni 13,18). Il verbo scegliere o eleggere è un termine chiave nella storia biblica. Dio ha scelto Abramo, ha eletto Israele per farne suo popolo. È dunque la scelta di Dio che costituisce il popolo di Dio, il popolo dell’alleanza. Ciò che rende l’alleanza stabile è che Dio sceglie d’amare Abramo e i suoi discendenti per sempre. L’apostolo Paolo commenterà: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Romani 11,29).

Poiché Gesù ha scelto i dodici come Dio ha scelto il suo popolo, non poteva rinviare Giuda, anche quando capì che lo avrebbe tradito. Sapeva che doveva amarlo sino alla fine per attestare che la scelta di Dio era irrevocabile. I profeti, in particolare Osea e Geremia, hanno parlato nel nome di un Dio ferito e umiliato dal tradimento del suo popolo, e che tuttavia non cessa d’amare d’un amore eterno. Gesù non voleva e non poteva fare di meno: umiliato dal tradimento di uno dei suoi intimi, non cessò di mostrargli il suo amore. Abbassandosi davanti ai suoi discepoli per lavar loro i piedi, si fece il servo di tutti, anche di Giuda. Ed è in modo particolare a Giuda che diede un pezzo di pane condiviso: frammento d’amore ardente che costui portò con sé nella sua notte (Giovanni 13,21-30).

Se voleva essere fedele al Padre suo – al Dio che aveva scelto Abramo e Israele, al Dio dei profeti – Gesù non poteva fare altrimenti che mantenereGiuda accanto a sé sino alla fine. Egli amava Giuda anche quando questi era interamente preso dalle sue tenebre. «La luce splende nelle tenebre» (Giovanni 1,5). Il Vangelo dice che è nel momento in cui dava il suo amore a Giuda, d’averlo amato in perdita e senza misura, che Gesù «fu glorificato» (Giovanni 13,31). Nella notte più opaca del risentimento e dell’odio, egli manifestò l’irradiamento inaudito dell’amore di Dio.

Perché i vangeli sono così discreti sui motivi di Giuda?
È sorprendente che i primi cristiani non abbiano tenuto sotto silenzio il fatto che uno dei dodici apostoli consegnò Gesù alle autorità ostili. Poiché questo fatto getta un dubbio sulla persona di Gesù stesso: si era sbagliato nella scelta dei suoi compagni? Ma è anche sorprendente che i vangeli dicano pressappoco nulla sui motivi di Giuda. Fu deluso quando comprese che Gesù non era un messia con un programma di liberazione politico? Pensò d’agire nell’interesse del suo popolo mettendo fine alla carriera di Gesù? Certuni hanno supposto che agisse per l’attrattiva del lucro; altri, invece, che era per amore, per aiutare Gesù a donare la sua vita…

Per quanto riguarda il perché di ciò che Giuda ha fatto, nei vangeli ci sono solo due indicazioni. Una è l’evocazione del diavolo: è lui che «aveva messo in cuore a Giuda di tradirlo» (Giovanni 13,2). Ma ciò rende l’enigma ancora più fitto. Il diavolo, o satana, è colui che si oppone, rimprovera, calunnia. Gesù percepì il risentimento che era nato nel cuore di Giuda e che vi si era radicato fino al punto di non ritorno. Però sul perché, non una parola, non un’allusione.

L’altra indicazione, è il riferimento alle Scritture sante. A proposito del tradimento di Giuda, Gesù dice: «affinché si compia la Scrittura: Colui che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno» (Salmo 41,10 citato in Giovanni 13,18). Bisogna capire bene qual è, nei vangeli, il senso di questo riferimento alle Scritture sante. Esse non sono un copione che determinerebbe in anticipo il ruolo di ogni attore. Ogni lettore attento della Bibbia sa bene come essa propone delle scelte e mette ciascuno davanti alle sue responsabilità.

Citando il versetto del salmo: «Colui che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno» (Salmo 41,10), Gesù non afferma che Giuda non poteva agire diversamente, ma che Dio resta l’attore principale di quel che si sta giocando. C’è il dramma del tradimento, e allo stesso tempo Dio è all’opera. Poiché se ciò che Giuda sta facendo compie la Scrittura, è che, in modo misterioso, il progetto di Dio si realizza, Dio compie la sua parola (Isaia 55,10-11). Il riferimento alla Scrittura permette di credere in Dio anche nella notte, anche quando ciò che capita è incomprensibile.

Se il risentimento e l’odio di Giuda rimangono incomprensibili, l’amore di Gesù«sino alla fine» è ancor più al di là di ogni comprensione. I vangeli sono così discreti circa i motivi di Giuda perché non vogliono soddisfare la nostra curiosità, ma condurci alla fede. Non svelano l’abisso di tenebre del dramma diGiuda, ma rivelano l’insondabile e incomprensibile profondità de



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ESEGESI V.GIOVANNI 3,36

Esegesi Gv 3,36



“Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio incombe su di lui».”( Gv. 3, 36)

Dice s.Beda riferendosi a questo testo “Non debet hic intelligi fides quae verbo tenus tenetur, sed quae operibus adimpletur.” La traduzione di questo testo è la seguente: non si deve intendere qui con il termine fede quella che si tiene solo con la parola ma quella che si compie con le opere

Quanto appena detto significa, più generalmente, che laddove i testi biblici neotestamentari parlano di fede essi non si riferiscono, in molti casi, solo alla fede ma alla fede unita alla carità, cioè non si riferiscono alla fede informe ma alla fede perfetta che è appunto unita alla carità. Questa è la fede che porta la salvezza e la vita eterna in noi: la fede unita alla carità. Senza la carità noi siamo nel peccato e nella dannazione, con la carità la grazia e la salvezza sono in noi. Occorre dunque stare molto attenti allorché si parla di fede nella Bibbia per distinguere bene se si sta trattando della fede perfetta(unita alla carità) o della fede informe; allorché troviamo espressioni che affermano la salvezza in relazione alla fede esse vanno intese nel senso che la fede unita alla carità è salvifica, perché la vita di Dio, la grazia, viene in noi con la carità: Dio, infatti, è carità e la carità fa che Dio viva in noi.



D. Tullio

CRITO IMPASSBILE

Dice s. Tommaso:

S. Th. III q. 16 a. 8

RA2

Ad secundum dicendum quod omnes proprietates humanae naturae, sicut et divinae, possunt aliqualiter dici de christo.

Unde et Damascenus dicit, in III libro, quod christus, qui deus et homo dicitur, creabilis est et increabilis, et partibilis et impartibilis.

Sed tamen illa quae dubitationem habent circa alterutram naturam, non sunt dicenda absque determinatione.

Unde et ipse postea alibi subdit, ipsa una hypostasis, scilicet christi, et increata est deitate, et creata est humanitate.

Sicut et e converso non esset dicendum sine determinatione quod christus est incorporeus, vel impassibilis, ad evitandum errorem Manichaei, qui posuit christum verum corpus non habuisse, nec vere passum esse, sed dicendum est cum determinatione quod christus secundum deitatem est incorporeus et impassibilis. »



Cristo in quanto uomo era passibile e corporeo, ma in quanto Dio Egli è, era e sarà impassibile e incorporeo !!!



D. Tullio

Precisazioni su Cristo e la sua sofferenza


Precisazioni su Cristo e la sua sofferenza:

1) Cristo non è persona insieme divina e umana. Mi pare radicalmente eretico affermare che è persona umana e divina .Cristo è solo e unicamente Persona divina: ma ha una natura divina e una natura umana.

CCC 612 Il calice della Nuova Alleanza, che Gesù ha anticipato alla Cena offrendo se stesso, 475 in seguito egli lo accoglie dalle mani del Padre nell'agonia al Getsemani 476 facendosi « obbediente fino alla morte » (Fil 2,8). 477 Gesù prega: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! » (Mt 26,39). Egli esprime così l'orrore che la morte rappresenta per la sua natura umana. Questa, infatti, come la nostra, è destinata alla vita eterna; in più, a differenza della nostra, è perfettamente esente dal peccato 478 che causa la morte; 479 ma soprattutto è assunta dalla Persona divina dell'« Autore della vita », 480 del « Vivente ». 481 Accettando nella sua volontà umana che sia fatta la volontà del Padre, 482 Gesù accetta la sua morte in quanto redentrice, per « portare i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce » (1 Pt 2,24).

616 È l'amore sino alla fine 495 che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell'offerta della sua vita. 496 « L'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti » (2 Cor 5,14). Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti. L'esistenza in Cristo della Persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce Capo di tutta l'umanità, rende possibile il suo sacrificio redentore per tutti.

626 Poiché l'« Autore della vita » che è stato ucciso 516 è anche il Vivente che « è risuscitato », 517 necessariamente la Persona divina del Figlio di Dio ha continuato ad assumere la sua anima e il suo corpo separati tra di loro dalla morte:

« La Persona unica non si è trovata divisa in due persone dal fatto che alla morte di Cristo l'anima è stata separata dalla carne; poiché il corpo e l'anima di Cristo sono esistiti al medesimo titolo fin da principio nella Persona del Verbo; e nella morte, sebbene separati l'uno dall'altra, sono restati ciascuno con la medesima ed unica Persona del Verbo ». 518



CCC 252
La Chiesa adopera il termine “sostanza” (reso talvolta anche con “essenza” o “natura”) per designare l'Essere divino nella sua unità, il termine “persona” o “ipostasi” per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca, il termine “relazione” per designare il fatto che la distinzione tra le Persone divine sta nel riferimento delle une alle altre.

Concilio di Efeso (431)
CCC 466
L'eresia nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiunta alla Persona divina del Figlio di Dio. In contrapposizione ad essa san Cirillo di Alessandria e il terzo Concilio Ecumenico riunito a Efeso nel 431 hanno confessato che “il Verbo, unendo a se stesso ipostaticamente una carne animata da un'anima razionale, si fece uomo” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250]. L'umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l'ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Per questo il Concilio di Efeso ha proclamato nel 431 che Maria in tutta verità è divenuta Madre di Dio per il concepimento umano del Figlio di Dio nel suo seno; “Madre di Dio. . . non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250].



Concilio Efesino



Lettera II di s. Cirillo alessandrino a Nestorio

“Così, diciamo che egli ha sofferto ed è risuscitato, non che il Verbo di Dio ha sofferto nella propria natura le percosse, i fori dei chiodi, e le altre ferite (la divinità, infatti non può soffrire, perché senza corpo); ma poiché queste cose le ha sopportate il corpo che era divenuto suo, si dice che egli abbia sofferto per noi: colui, infatti, che non poteva soffrire, era nel corpo che soffriva. Allo stesso modo spieghiamo la sua morte. Certo, il Verbo di Dio, secondo la sua natura, è immortale, incorruttibile, vita, datore di vita; ma, di nuovo, poiché il corpo da lui assunto, per grazia di Dio, come dice Paolo, ha gustato la morte per ciascuno di noi, si dice che egli abbia sofferto la morte per noi. Non che egli abbia provato la morte per quanto riguarda la sua natura (sarebbe stoltezza dire o pensare ciò), ma perché, come ho detto poco fa, la sua carne ha gustato la morte. Così pure, risorto il suo corpo, parliamo di resurrezione del Verbo; non perché sia stato soggetto alla corruzione - non sia mai detto - ma perché è risuscitato il suo corpo.”





Concilio Efesino canoni

" Diciamo che Cristo
ha sofferto non per il fatto che Dio Verbo ha sofferto nella sua natura,
o abbia ricevuto piaghe o transfissione di chiodi (infatti Dio incorporeo
è fuori della passione) ma poiché quel corpo che è proprio di Lui stesso
ha sopportato questo, perciò tutte queste cose si dice che le ha sofferte.
Era infatti in quel corpo che soffriva, Dio che non poteva soffrire. E allo
stesso modo intendiamo la sua morte , infatti naturalmente Egli è Immortale
e incorruttibile , è vita e vivificante"(cap.14)





Concilio di Calcedonia (451)
CCC 467
I monofisiti affermavano che la natura umana come tale aveva cessato di esistere in Cristo, essendo stata assunta dalla Persona divina del Figlio di Dio. Opponendosi a questa eresia, il quarto Concilio Ecumenico, a Calcedonia, nel 451, ha confessato:

«Seguendo i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l'umanità.
Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi» [Concilio di Calcedonia: Denz. -Schönm., 301-302].

Concilio di Costantinopoli II (553)
CCC 468
Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è “una sola ipostasi [o Persona].. ., cioè il Signore nostro Gesù Cristo, Uno della Trinità ” [Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424]. Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto proprio, [Cf già Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 255] non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424] e così pure la morte: “Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della Santa Trinità” [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz.- Schönm., 424].













2) Cristo non era soggetto al patire quanto alla sua divinità ma solo ed unicamente quanto all’umanità (DH 166, 196s, 293s,297,300, 318, 367, 442,492, 504, 635,681, 801, 852, 2529); coloro che affermavano che Cristo soffrì anche quanto alla divinità erano gli eretici teopaschiti.







S. Tommaso afferma (S. Th. III q. 16 a. 8) “..Ea vero de quibus suspicari non potest quod divinae personae conveniant secundum seipsam, possunt simpliciter dici de christo ratione humanae naturae, sicut simpliciter dicimus Christum esse passum, mortuum et sepultum. ..” Quelle cose delle quali non si può sospettare che convengano alla divina Persona secondo sé stessa, possono dirsi semplicemente di Cristo secondo la natura umana.

Oggi però, aggiungo io, appunto per il fatto che ci sono alcuni che affermano falsamente che la natura divina soffra e sia mortale penso che sia bene precisare che Cristo ha sofferto ed è morto in quanto uomo

Dicendo questo noi seguiamo addirittura s. Pietro che afferma

1Pietro 4:1 Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti



E aggiunge più avanti S. Tommaso (S. Th. III q. 16 a. 8) “..Unde et ipse postea alibi subdit, ipsa una hypostasis, scilicet Christi, et increata est deitate, et creata est humanitate..” Cioè egli (s. Giov. Damasceno) successivamente in un altro luogo aggiunge (subdit) che la stessa unica ipostasi (Persona) è increata secondo la divinità e creata secondo l’umanità. Perciò è s. Tommaso stesso che mi ha invitato a fare quello che ho fatto.



Nota che anche s. Tommaso parla di Cristo secondo la natura umana e secondo la natura divina

“Sed utrum ad christum, secundum quod homo est, mittatur filius invisibiliter, vel spiritus sanctus visibiliter vel invisibiliter, dubium Est.





Più direttamente s. Tommaso usa la mia stessa terminologia in questi testi “Ad primum ergo dicendum, quod christus, secundum quod homo, est causa meritoria nostrae justificationis; sed secundum quod deus, est causa influens gratiam.”(In IV Sent d. 1 q. 1 a. 4 qc 4 ad 1m )



“Ad secundum dicendum, quod redemptor dicitur dupliciter. Uno modo propter usum potestatis auctoritativae in absolvendo a peccato, et sic christus secundum quod deus, redemptor Est. Alio modo propter effectum humilitatis; et sic competit ei secundum quod homo, inquantum per humilitatem passionis nobis remissionem meruit peccatorum; et hoc pertinet ad potestatem excellentiae, ut dictum Est. .”(In IV Sent d. 5 q. 1 a. 1 ad 2m )





3) Per concludere: Benedetto XIV nella professione di fede da lui inviata agli orientali ha scritto



“ Venero …. il Concilio Calcedonese , quarto nell’ordine, e credo cioè che in esso è stato definito contro Eutiche e Dioscoro …. che l’unico e medesimo Figlio di Dio Signore nostro Gesù Cristo è perfetto nella divinità e nella umanità, vero Dio e vero uomo di corpo e anima razionale, consustanziale al Padre per la divinità e a noi consustanziale per l’umanità ….. Cristo Figlio di Dio che deve essere riconosciuto in due nature in modo: inconfuso, indiviso, inseparabile, immutabile senza che l’unione tolga la differenza delle nature ma piuttosto salva la proprietà di ciascuna natura concorrente in una persona …. Inoltre (credo ) che la divinità di Cristo nostro Signore, secondo la quale è consostanziale al Padre e allo Spirito Santo, è impassibile e immortale, e che lo stesso inoltre è stato crocifisso ed è morto solo secondo la carne, come parimenti è stato definito nel detto Concilio (Calcedonese) ….. per la cui definizione è condannata l’empia eresia di coloro che che al Trisagio consegnato dagli angeli e proclamato nel Concilio predetto “Santo Dio, santo forte, santo immortale” aggiungevano, “che è stato crocifisso per noi” e così dichiaravano mortale e passibile la divina natura delle Tre Persone”.(DH 2529)



Qui è proprio il Magistero che parla di Cristo secondo la divinità e secondo la carne (umanità) .





D. Tullio